In principio era Dragon Quest, Dragon Quest era presso Dio e Toriyama era Dio. (di Starfox Mulder)

Il 1986 è stato un gran anno. E’ nata la signora Mulder (ok, non ve ne frega niente), era da poco terminato l’anime del primo grande successo di Akira “Dragonball” Toriyama, altrimenti detto Dr. Slump & Arale (di questo magari vi frega) ed il Giappone era pronto a fare il grande passo e rispondere ai terribili conquistatori che quaranta anni prima tirarono la bomba su Hiroshima e Nagasaki dandogli pan per focaccia.
Come? Il Giappone attaccò gli States e ce lo siamo persi? NN CIELO DIKONO!!1!!!!!

No, niente armi di distruzione di Massa, qui si parla di uno scontro ruolistico videoludico. Si potrebbe aprire un capitolo infinito sul senso di inferiorità vissuto dal Giappone nel post WW2 e le bellissime opere di fantasia che ne sono derivate (sempre sia benedetto Otomo) ma quel che si sa del primo Dragon Quest, il capostipite dei cosiddetti Japan Role Playing Games (JRPG da adesso e per l’eternità), è che fu fortemente ispirato da titoli occidentali come Ultima o Wizardry.
I giapponesi guardavano quindi sempre all’occidente per creare il loro personal jesus. Sigla!
TRAMA
Un eroe senza nome (Gesù) arriva al castello di Tantegel (la Terra) dove apprende che la principessa (l’umanità) è stata rapita da un drago (il peccato originale). Faccio voli troppo pindarici? Come preferite, a me sembra che nella banalità del più classico dei plot ci si possa infilare tranquillamente ogni riferimento coerente o meno che sia.
GAMEPLAY
Yuji Horii, il padre di Dragon Quest, sapeva che gli RPG erano una figata ma anche che giocarci richiedeva un impegno piuttosto serio. Manualoni da leggere, comandi da digitare su una tastiera, sigle da memorizzare….naaaa, serviva semplicità. L’ideale sarebbe stato far tutto con una croce direzionale e due tasti tasti. Come dite? Il Nes era il candidato ideale per entrare a gamba tesa contro la complicata concorrenza americana? Hai voglia te!

E la semplicità fu quello che ottennero. Croce direzionale per muovere l’eroe, un tasto per richiamare dare conferme e l’altro per richiamare il menu o annullare. Tutte le azioni venivano selezionate da menu. Fine.
Un solo eroe (il concetto di party sarebbe arrivato poco dopo), un mondo da esplorare e quest, principali e secondarie, da completare. Ore ed ore di gameplay da sospendere grazie ai salvataggi appositi. Wow, già si salvava? Certo, tramite le password elargite dal buon Re di Tantegel, luogo in cui torneremo per tutta la durata dell’avventura, piazzato infatti in un punto relativamente centrale del mondo di gioco. Non vi serve sapere altro, tranne che da qui si iniziò a macinare livelli in continui incontri casuali e ricercare equipaggiamenti sempre migliori per arrivare incolumi al boss finale e fargli le chiappe a striscie. Tutto quel che venne dopo migliorò semplicemente questa formula.

GRAFICA E SONORO
Mi tolgo subito il dente per quanto riguarda il comparto audio: Koichi Sugiyama compose gli 8 pezzi che fecero da colonna sonora al gioco e furono così ispirati e coinvolgenti da portare la Enix (sì, furono loro a battere la Square sul tempo, anni prima della fusione aziendale, e la loro fantasia finale sul tempo) a farne un CD musicale in vendita da lì a qualche anno, persino facendone un dramma narrato da attori veri.
Il comporto grafico invece è quello che ci interessa non tanto per la resa a schermo (validissima per l’epoca ma abbastanza invecchiata oggi) quanto per il characters design. Il Dio dei Manga già citato più volte prima fu coinvolto nella creazione dei personaggi e dei mostri del mondo di DQ e da allora non mollò più la presa. Draghi cicciotti, eroi coi capelli tamarri e cacchine (slime) pucciose, ma inizialmente tutt’altro che innocue, sapranno immergerci nella mente del mangaka in modo completo sin da subito, riportandoci bambini…sempre che come me siate cresciuti con le opere del robottino.

LONGEVITÀ
Se lo si paragona a tutti i JRPG successivi qui andiamo male. Una decina di ore e lo si conclude, facciamo 16 a prendercela comoda e spulciare tutto il mondo di gioco liberamente esplorabile. Chiaramente i paragoni a posteriori son per gli scemi quindi caliamoci nella testa di chi lo visse all’epoca ed immaginiamoci gente abituata a finire titoli Nes in un paio d’ore al massimo (quando non potevi salvare l’unica longevità era dovuta al tempo richiesto per diventare bravi) che d’un tratto si trovavano a poter esplorare un vasto mondo e sconfiggere mostri su mostri fino ad arrivare ai livelli più alti concessi. Figata!

REPERIBILITÀ/COME CACCHIO CI GIOCO
Vi potrei narrare i prezzi del primo Dragon Quest per Famicom o della sua conversione (Dragon Warrior) per Nes USA, ma voi che state leggendo al 99% siete europei, quindi bando alle roms hackerate e tradotto per l’emulazione e passiamo direttamente al suo remake per GBC.

Stiamo sulla quarantina in versione loose, non proprio economico ammettiamolo, ma si può sempre tornare all’ipotesi riguardante gli emuparadisi fiscali.
CONCLUDENDO
Non è un caso che abbia scelto di recensire questo titolo per il mese che il Bionic Cummenda ha scelto di dedicare a Gesù Cristo. Dragon Quest è una parabola classica, con un eroe giunto per salvarci tutti e una nuova speranza per le software house giapponesi. Dopo arrivò Final Fantasy (che tanto successo ebbe in occidente quanto mantenne il secondo posto nel cuore dei Giappi dopo DQ), Phantasy Star e tutto il resto, ma nel Maggio del 1986 il salvatore era Dragon Quest e nessun altro.
Sia reso lode al grandissimo.